Colson Whitehead La nobile arte
del bluff Einaudi 2016 pp.198
Un libro interessante a sprazzi. Ad esempio quando descrive
l’ambiente dei casinò di Atlantic City e di Las Vegas. Grazioso quando racconta
gli sforzi e gli studi necessari per diventare un decente giocatore di Texas Hold’em, il poker “scientifico”
che si gioca alle World Series of Poker
di Las Vegas. Il Texas Hold’em è un
gioco noioso per il 95% del tempo, e il restante 5% (quando hai le carte buone)
non è sufficiente a bilanciare le ore e ore di passività cui ti costringe. E’ un gioco di carte di serie B, un po’
meglio del burraco, molto peggio del tressette e neanche da paragonare al
bridge, gioco in cui anche le carte più infime hanno immenso valore strategico,
e in cui la fortuna non conta. Whitehead è simpatico, e pregevole quando si
sofferma sui rituali che precedono il momento di sedersi al tavolo in un campionato importante. Ma anche quando
osserva i compagni di tavolo, come li valuta, li teme, li sottostima o sovrastima,
descrive i loro completi tamarri, gli occhiali scuri, le mani. Teme la
sporcizia delle fiches, chissà quanti
vanno in bagno senza poi lavarsi le mani e le insozzano. Tutti pensieri tesi a riempire il tempo tra un
fold e l’altro, e a calcolare per
quanti colpi puoi ancora restare seduto al tavolo prima di tentare il tuo all in. Una barba, per colpa del gioco,
ovviamente. Il libro al contrario è divertente e abbastanza intelligente da
scoraggiare per sempre eventuali aspiranti giocatori.